mercoledì 31 agosto 2016

DA NON PERDERE

Nel numero 335 di Settembre della rivista "Artedossier" due articoli trattano di incisione:

Bianca Cerrina Feroni, L'EROS È UNA LINEA SOTTILE.
Incidere a quattro mani: Hans Bellmer e Cécile Reims.
















Carol Morganti, LUCE SULLA FOLLIA.
Il volto della Vittoria di Henry De Groux.



sabato 13 agosto 2016

COSA NE PENSI?

       

Rembrandt
Il Dottor Faust







H
o il privilegio di frequentare degli artisti, non molti in verità, che mi mostrano le nuove incisioni in fase di realizzazione o che hanno appena ultimato. Così, pian piano, mi sono fatto l'idea che chi incide (ma ritengo valga per chiunque si applichi ad un'attività creativa) corre due pericoli: il pericolo di essere troppo tollerante con sé stesso e, all'opposto, il pericolo di essere ipercritico fino a disprezzarsi. 
Quando l'artista sente che tutto ciò che pensa e realizza trabocca di qualità, allora incide con una facilità che dovrebbe insospettirlo, ma generalmente non ha alcun sospetto perché, in questi momenti di euforia creativa che arde di vano fuoco, non c'è spazio per sospetti o dubbi e tutto quello che realizza gli sembra felicemente risolto, utile e destinato all'immortalità.
Quando invece tende a disprezzarsi, annienta ogni idea non appena si affaccia, e così ammucchia intorno a sé ingombranti cadaveri di idee difficili da rimuovere.
Oppure ancora, essendo pieno di disprezzo per sé stesso, ma anche di una oscura speranza, insiste su una stessa idea la rielabora, la modifica infinite volte, nella speranza che da quella idea iniziale sgorga, per miracolo, il capolavoro.
Perciò chi incide, dopo un momento di elaborazione individuale, sente con forza la necessità di confrontarsi: poche persone di fiducia alle quali sottoporre ciò che pensa e sta realizzando. Il pubblico è, per l'artista, una proliferazione di queste poche persone proiettate nell'ignoto e, si auspica, nel tempo della storia.
Sono proprio queste persone che aiutano l'artista sia a non provare per sé stesso una fiducia cieca, sia a non provare per sé stesso un disprezzo mortale. Lo aiutano a difendersi dalla sensazione di farneticare in solitudine.
Siccome il principale timore dell'artista è di realizzare opere inutili e non interessanti, è assolutamente necessario che gli interlocutori proteggano l'artista da questo timore.
La scelta degli interlocutori non è facile: l'amicizia, la stima, l'affetto sono necessari, ma non sufficienti. 
Difficilmente i figli possono assolvere a questo compito tendendo ad assere nei confronti dei genitori ipercritici e se questo non accade, accade il contrario, cioè tendono a mitizzarli, ed è anche peggio.
Si può obiettare che ciascun artista dovrebbe essere abbastanza maturo per autovalutarsi, per quanto è possibile ad un essere umano esprimere un giudizio distaccato sopra sé stesso, ma agli interlocutori non si chiede tanto un giudizio critico disincantato, quanto una sorta di partecipazione, durante il lavoro e subito dopo, un contributo di parole al lavoro solitario di incidere.
Ho la presunzione di essere un interlocutore ideale, pur essendo caratterialmente irrequieto e niente affatto paziente, ho un naturale rispetto dei modi e dei tempi del dialogo e osservo sempre con attenzione qualunque incisione, forse mi riesce anche di animare, nel prossimo, il desiderio di incidere.
Riuscire a trovare attenzione è raro, ritengo che gli artisti non si sbagliano mai riguardo all'attenzione del prossimo, cioè si accorgono subito quando l'attenzione verso una loro opera è debole e distratta: dal grado di attenzione si può intuire il riscontro che attenderà l'opera.

lunedì 1 agosto 2016

L'INCISORE E LA FORMICA

L'unica "incisione" che oggi mi interessa è quella che nel dare forma (cioè segno, stile, composizione) ad un contenuto, riesce a raccordare idee ed esperienze, ma senza esibire lo scarto tra incisione e mondo, o la virtualizzazione del reale, o il labirinto bugiardo di sconfinati universi paralleli, o l'esplosione del linguaggio, o la crudeltà obliqua, o il destino manieristico dell'arte.
Ho trovato un chiarimento di questa mia idea confusa nel romanzo “Maestro Utrecht” di Davide Longo (NN Editore, pp. 156, € 13,00), dal quale avevo tratto il post intitolato “Apologo sulla didattica dell’arte”.
Longo, che insegna scrittura presso la "Scuola Holden" di Torino, utilizza la metafora della "formica tagliafoglie" riferendola all'attività dello scrittore, così, anche se a Davide Longo, «… irrita parecchio che usino le mie similitudini… Non mi va che troppa gente ci metta le mani sopra.» (p. 53) la riporto con l'aggravante di distorcerla sostituendo le parole scrittore e storie con artista ed arte.

«Per arrivare al sodo, essa fa cosi: la formica tagliafoglie è una formica tropicale dotata di robuste mandibole e due denti laterali simili alle chele di un granchio, che le servono per ritagliare geometricamente grandi foglie, staccarne parti pesanti fino a dieci volte il suo peso, e trasportarle nella tana.
Le tane sono agglomerati urbani, un metro sotto terra, abitati da milioni di formiche che civilmente collaborano per il bene della comunità, secondo il luogo comune che le accomuna alle api e ad altre industriose creature estranee all'egoismo.
Per molto tempo sì è dato per scontato che le formiche tagliafoglie si cibassero dei ritagli di foglie. Perché altrimenti fare tutta quella fatica? Finché si è scoperto che le cose non stavano così.
La formica tagliafoglie non mangia le foglie, ma le porta in un'enorme cella sotterranea e aspetta che grazie al buio e al calore vadano in decomposizione, producendo sulla loro superficie un fungo, fonte del suo sostentamento.
Lo stesso equivoco alimenta da sempre l'idea che la gente ha degli artisti: che prendano pezzi di vita, li portino in laboratorio e ne facciano opere d'arte.
Un artista non si ciba di vita propria o altrui, ma ne ritaglia porzioni, le trascina nella tana e aspetta che su quei brandelli in decomposizione, grazie al luogo caldo, chiuso e poco areato, nascano le sue opere. Ne deriva che le opere d'arte non sono vita, né una sua "rappresentazione", ma qualcosa che cresce sopra la vita, nelle tane di determinati individui. Può sembrare una questione di lana caprina, ma in verità è sostanziale, avendo a che fare con la sostanza di cui è fatta l'arte