venerdì 10 aprile 2015

XILOGRAFIA LINGUA MORTA

Michel Wohlgemuth, DER TANZDERSKELETTE
da Hartmann Schedel, LiberCronicarum, 1493
«L'incisione è morta da quasi un secolo, ma c'è qualcuno che si reca quotidianamente a pisciare sulla sua tomba»





Nel corso della storia gli scritti autografi degli artisti non sono mai stati numerosi, a parte trattati e manuali, ci restano le annotazioni sparse di Leonardo da Vinci, il diario di Pontormo "Fatto nel tempo che dipingeva il Coro di San Lorenzo"... tra i testi con intento polemico mi viene in mente "I cornuti della vecchia arte moderna" di Salvador Dalì... anche Giorgio de Chirico in "Memorie della mia vita" si toglie qualche sassolino... La Casa Editrice "SE" nella collana "Saggi e Documenti del Novecento" pubblica gli scritti lasciati in forma di autobiografie, diari, lettere, annotazioni sparse...
Se focalizziamo l'interesse sull'incisione il ricordo va a certe considerazioni nelle lettere di Bartolini e in tempi più vicini alla "Breve ma veridica storia dell'incisione italiana" in prima edizione nel 1989, successivamente in "seconda edizione aggiornata alle ore 22 del 30 gennaio 1995", la "Lettera Aperta a un professore in grafiche varie e linguaggi annessi", riportata tra le nostre pagine, e un'altra "Lettera mai spedita" indirizzata agli exlibristi, ma mi rendo conto di essere andato fuori strada perché nessuno di questi ultimi autori è un artista.
Questi rigurgiti di memoria hanno accompagnato la lettura delle bozze del libello che Francesco Parisi ha dato alle stampe col titolo "Xilografia Lingua Morta" per i tipi della Galleria Aleandri in trentasei esemplari numerati fuori commercio, Ad Personam, stampati tipograficamente e cento copie stampate in digitale.
Di seguito, per gentile concessione dell'autore, ne riportiamo qualche stralcio e per chi fosse interessato il costo è di 15,00 Euro e può essere richiesto alla “Galleria Simone Aleandri Arte Contemporanea” di Roma (www.aleandriartemoderna.com Tel. 3476309520).
Stante la scarsa propensione degli artisti alla scrittura credo che difficilmente troveremmo qualcun'altro che nel fondo di qualche cassetto custodisca considerazioni simili a quelle di Parisi, ma sono certo che se anziché nei cassetti fosse possibile frugare nelle menti le probabilità aumenterebbero e non di poco.
Quando una passione è sentita intensamente al punto da identificarsi con la vita stessa (consentitemi: quando è vero amore) si diventa intransigenti, mal si tollera chi verso quella stessa passione dimostra superficialità di sentimenti, sciatteria...
Nella sua scrittura Francesco Parisi non usa mezzi termini, le sue considerazioni sono chiare e dirette e ritengo che siano soggette allo stesso paradosso di alcuni post di questo blog che sono condivisi solo se riguardano gli altri e non ci chiamano in causa direttamente e non ci sfiora il sospetto che gli "altri" potremmo essere noi.
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Durante gli anni trascorsi in Accademia come studente, notavo le mie colleghe, per la maggior parte provenienti dal sud e dalla Calabria, indossare camici bianchi e guanti per dipingere. Io rimanevo perplesso nei confronti di quell'attitudine a non sporcarsi, probabile eredità bifolca inculcata dalle loro madri attente a non fargli lordare i vestiti per andare ordinate la domenica a messa.

Dopo l'incisione no-toxic, colpo di grazia maramaldico inferto al corpo morente dell'incisione perpetrato perlopiù da donne, sorprende vedere sempre più esponenti del gentil sesso armeggiare caratteri tipografici - con la stessa attitudine con cui preparerebbero carciofi sotto olio - e produrre orribili libri che si ostinano a chiamare «d'artista». Le si vede sulle fotografie che le ritraggono sorridenti al torchio da stampa con grembiuli da tipografo indossati come grembiuli da massaie e barattoli di inchiostro scambiati per conserve di pomodoro.

Ho potuto vedere in questo fine anno una serie di Pour Feliciter con stelle comete, bambinelli, asinelli, angioletti, montagne innevate etc. L'incisione è morta da quasi un secolo, ma c'è qualcuno che si reca quotidianamente a pisciare sulla sua tomba.

Ieri una tipa mi ha scritto chiedendomi un aiuto per l'organizzazione di una nuova associazione di incisori. Gli ho risposto che per me nessuna associazione seria di incisori dovrebbe includere donne e che se la selezione l'avessi fatta io non sarebbero passati più di quattro o cinque incisori su tutto il territorio nazionale. Poi le ho intimato di suicidarsi e lei mi ha risposto: chi ti credi di essere?

L'incisione atossica, perlopiù praticata da donne, mostra sempre parallelismi con la cucina delle mamme e delle nonne. Le artiste che la praticano si danno la zappa sui piedi da sole chiamando il loro laboratorio kitchen print.

Un incisore molisano mi ha scritto: «quando spedirà metta "maestro" prima del mio nome e dell'indirizzo». Il fatto che io debba intrattenere rapporti con simili cialtroni è indice del mio fallimento, come uomo prima e come artista poi.

Un amico mi scrive: «Vorrei essere tanto il tuo Gualtieri di San Lazzaro, ma quando proverò a vendere le tue xilografie, che mi invento? Che gli dico ai collezionisti? Che le interessa una sodomizzazione animale di stampo giudaico nel deserto? Ho giusto quello che fa per lei!» Poi ha aggiunto: «quando chiederemo l'elemosina fra il Caffè Greco e l'Aragno mangeremo anche le chele di granchio gommose avanzate dai giapponesi».

Facevo risuonare la nona di Bruckner in aula mentre uno studente mi mostrava il ritratto di Toro Seduto. Ho spento.

Dopo aver appreso della mostra di Giuseppe Stampone alla calcografia, reduce dall'avventura di Miss Italia dove aveva disegnato le magliette delle concorrenti, ho pensato di ammucchiare tutte le mie matrici di bosso di testa - intagliate e non - in un campo incoltivato e di dargli fuoco. L'idea mi è stata suggerita da un passo de L'adolescente di Dostoevskij: «quando non avessero avuto niente con cui scaldarsi (i poveri, ndr), egli avrebbe comprato un intero deposito di legname, lo avrebbe fatto ammucchiare in un campo e avrebbe riscaldato il campo, senza darne neppure un pezzetto ai poveri»

Ecco qui riunite le «numerose» schiere degli xilografi italiani (siamo in cinque, più una che va per i novanta), anche se mi sembra un controsenso allestire una mostra di incisione su legno per la «Giornata del Contemporaneo», ma tant'è.

Leggendo la biografia dello xilografo Blair Hughes-Stanton (primo premio per la grafica alla biennale di Venezia del 1938, ex aequo con Mario Delitala) vengo a sapere che nel dopoguerra, preda della disperazione per non aver più un mercato, cercò di uccidere la compagna con un pugno sulla tempia e che lei a sua volta tentò di strangolarlo con la sua stessa cravatta.

Una delle cose più tristi del mondo morto dell'incisione contemporanea sono le mostre collettive di incisione contemporanea. Per la maggior parte si tratta di dopolavoristi che non vendono un foglio neanche ai propri parenti, che non hanno gallerie che li rappresentano e che hanno pubblicato i loro lavori soltanto nei cataloghi delle biennali di grafica sparse per tutto il continente o al massimo in qualche catalogo autoprodotto stampato digitalmente (le gallerie di grafica difficilmente pagano cataloghi tipografici). In questi cataloghi collettivi solitamente sono presenti circa cinquanta artisti e l'incisore li conserva nella sua misera libreria cercando di dimenticare che quella pubblicazione l'ha soltanto lui e gli altri quarantanove artisti che hanno partecipato (quasi sempre pagando, oltre alle spese di spedizione, anche il contributo per il catalogo con una grafica da pizzeria di Molfetta). Di queste biennali ce ne sono a dozzine, bandite annualmente cosicché l'incisore può partecipare anche a sette biennali l'anno e collezionare queste pubblicazioni che sfoggerà come bibliografia nella pagina biografica del prossimo catalogo di biennale.
La morte dell'incisione diventa però definitiva quando alla mostra si associa la dimostrazione pratica di un incisore che stampa una sua lastra. C'é sempre l'incisore che si presta a queste dimostrazioni pensando di recuperare un 3% di visibilità in più come non mancherà mai il pubblico di vecchie babbuine annoiate che assisteranno alla "performance" esclamando «che bellooooooo» o «uhhhhhhhhh» come se stessero visionando una dimostrazione di scatole in plastica per frigoriferi. In effetti l'artista che si presta a questo quasi sempre ha la stessa cultura di un agente della Stanhome.

La calcografia nazionale organizzò un convegno sull'incisione. Il mio intervento, contrariamente a quello degli altri artisti relatori invitati, era basato sull’invito a non lamentarsi del disinteresse della critica nei confronti delle arti grafiche, bensì a coltivare questa tendenza. Durante la pausa pranzo un docente siciliano, mentre discorreva con me a tavola, si massaggiava continuamente lo scroto.

Per mesi sono stato chiamato al telefono. Chiamava a tutte le ore,  compresa la domenica mattina o la sera dopo le dieci. Mi diceva che la sua collezione era importantissima, che io dovevo essere onorato di farne parte, che presto si sarebbe fatta una mostra sulla xilografia italiana e che quindi io non potevo mancare. Mi chiedeva tre xilografie di grande formato. Per convincermi mi mandò un elenco fotocopiato degli artisti presenti nella sua collezione e un catalogo di sue opere che mischiava contenuti da dépliant di ceramiche da bagno con un gusto tipografico da ristorante shawarma kebab. 
Provò anche a chiedermi se potevo intercedere presso gli eredi di un noto artista dei primi anni del secolo per ricevere in dono una xilografia. Ad ogni telefonata promettevo imminenti quanto fantomatiche spedizioni di materiale. Dopo diverse settimane, non datosi per vinto, contattò telefonicamente una mia amica storica dell’arte per chiedere, sinceramente stupito, come mai io non avessi accettato di far parte della sua collezione così prestigiosa.
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Francesco Parisi, XILOGRAFIA LINGUA MORTA,
pp 17, Edizione Galleria Aleandri, Roma 2015. Euro 15,00

Galleria Simone Aleandri Arte Contemporanea.
Tel. 347 630 95 20







Gli intemezzi tra le considerazioni sono tratti da
François-Charles Wentzel, La Dans des Morts,
serie di 40 litografie, Casa Tipografica Wentzel,
Wissenbourg metà XIX sec.

venerdì 3 aprile 2015

IL SOGNO DI RAFFAELLO

L'attenzione delle riviste d'arte italiane verso l'incisione è praticamente inesistente. Sporadicamente se ne ricorda "Artedossier" (un precedente articolo lo avevamo commentato in un post del Dicembre 2012), nel numero 319, Marzo 2015, nella rubrica "Studi e Riscoperte", Francesca Di Gioia svolge una dotta lettura de "Il sogno di Raffaello" inciso da Marcantonio Raimondi intorno al 1508. L'articolo affronta l'incisione del "Bolognese" da un punto di vista esclusivamente interpretativo, non si addentra in questioni di tecnica e di “linguaggio”, ma individua interessanti riferimenti iconografici, pertanto ne segnaliamo la lettura arricchita di immagini di riferimento.



NUDE IN RIVA AL FIUME
di
Francesca Di Gioia

Se la fortuna critica di Marcantonio Raimondi, detto il Bolognese, si presenta in modo frammentario, ci raggiungono invece notizie per intero su un particolare momento della sua produzione grafica: quella delle stampe "d'après" Raffaello Sanzio. Tale attività si colloca cronologicamente negli anni romani del lavoro imprenditoriale del Baviera, con il quale Marcantonio collabora fattivamente in qualità di primo incisore. È grazie a questa impresa che nasce una bottega di incisori molto attiva nella Roma di Giulio II prima e di Leone X poi, a cui Raffaello "mamu propria" affida fogli da tradurre a stampa.
A raccogliere la fiducia incondizionata dell'Urbinate arriva a Roma il Bolognese, dopo una formazione a seguito de! maestro niellatore Francesco Francia, un breve soggiorno nella Serenissima e un passaggio da Firenze. È il concittadino Jacopo Ripanda, impegnato a Palazzo dei conservatori (Roma), a segnalargli la possibilità di ricevere commissioni prestigiose nella città che aveva già attratto a sé un altro bolognese, l'eccentrico Amico Aspertini che lavora in Campidoglio, gomito a gomito proprio con Ripanda. Arrivato a Roma, anche Raimondi non perde tempo e, dopo aver riprodotto a bulino un trionfo all'antica ispiralo al ciclo di Ripanda, viene chiamato da Raffaello. Grazie alla maestria tecnica e al suo indiscusso talento artistico, i fogli del Sanzio vengono tradotti dando vita a un'operazione sistematica di diffusione di modelli iconografici.

Marcantonio Raimondi, IL SOGNO DI RAFFAELLO, 1508 circa

Oggetto del nostro studio è la stampa Il sogno di Raffaello che la critica attribuisce agli anni vissuti da Marcantonio a Venezia e dunque a ridosso del soggiorno romano. IL sogno sarebbe "nato" da suggestioni lagunari, negli anni in cui Giovanni Bellini Tenta di metter fine al Festino degli dei per il camerino di Isabella d'Este e Giorgione è sui ponteggi del Fondaco dei tedeschi aiutato nell'opera da un apprendista cadorino, tale Tiziano Vecellio. Di quest'ultima impresa rimane un saggio di inestimabile valore, nel lacerto di affresco conservato a Venezia, noto come La nuda: delle Gallerie dell'Accademia, facente parte di un ciclo ormai perduto, terminato nel 1508 circa. Il pittore di Castelfranco Veneto, in quegli anni, aveva messo su tela La ninfa dormiente (delta anche La nuda) di Dresda, ultimata da

Giorgione e Tiziano, LA NINFA DORMIENTEOlio su tela, 1507-151 circa, 108,5×175 cm
Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda

Tiziano tra il 1508 e il 1512, che ha legami strettissimi con la Nuda nel paesaggio incisa a puntinato da Giulio Campagnola, entrambi i pezzi mollo vicini alla sensualità femminea delle donne addormentate del Raimondi.

Giulio Campagnola, NUDA NEL PAESAGGIO, 1482 circa

La stampa di Marcantonio dunque si colloca a contatto con quest'ambiente e con un altro stimolante snodo artistico che si viene a creare nel primo decennio del Cinquecento tra Giorgione, negli anni della maturità, Dürer al tempo del suo secondo soggiorno veneziano, e Jacopo de' Barbari, misterioso artista che si firma con il caduceo, simbolo mercuriale ed esoterico per eccellenza. Uno stimolante spunto nasce mettendo a confronto le opere che si pongono ai vertici di questo "triangolo alchemico" e che sono le Nude di Giorgione, la stampa con Il sogno del dottore di Dürer e  
Albrecht Dürer,IL SOGNO DEL DOTTORE, 1498 circa
Jacopo de' Barbari
LA VITTORIA E LA FAMA, 1498
















l'incisione a bulino con La Vittoria e la Fama di Jacopo de' Barbari. In particolare, quest'ultima sembra essere una versione "all'impiedi" delle due donne dormienti sulla riva del fiume immaginate dal Raimondi, al quale sarebbe toccato l'ingrato compito di ruotarle di novanta gradi in senso antiorario, di adagiarle lievi su di una sponda e di coprirne qua e là le nudità; la soluzione formale adottata è la medesima. Oltre a questa stampa nella produzione grafica del de' Barbari si trovano altri esemplari affini alle nude dormienti. È questo il caso per esempio della Vittoria adagiata tra i trofei che ripropone la stessa posa discinta che utilizza il Raimondi per la sua musa pensata però in controparte.


Jacopo de’ Barbari, VITTORIA ADAGIATA TRA I TROFEI, 1498 circa


Un suggestivo confronto stilistico si pone anche tra la nostra stampa e una delle tavole xilografiche della Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, raffinato prodotto letterario di
ambito umanistico, editato a Venezia per i tipi di Aldo Manuzio nel 1499, raffigurante Polifilo che visita con Polia il palazzo di Venere. In questa tavola la dea dormiente appoggiata su un fianco, seminuda e ammirata da un satiro, ha stringenti legami anche col Sarcofago Mattei di età severina (220 d.C. circa) di cui daremo cenno. A tal fine proponiamo qui, non senza certezze iconografiche, una traccia formale ben leggibile a fronte della stampa remondiana. Da questa poi si farà riferimento anche a un probabile tema ispiratore del soggetto della nostra stampa.


Copia del SARCOFAGO MATTEI,220 d.C. Museo della civiltà romana, Roma.

Per quanto riguarda l'opera di Raimondi rispetto al Sarcofago Mattei, il legame tra i due nasce dall'osservazione della scena con Marte e Rea Silvia sulla parte destra del fronte di quest'ultimo murato lungo lo scalone di palazzo Mattei a Roma (i fianchi del sarcofago sono conservati nel Museo Pio Clementino dei Musei vaticani e contengono due raffigurazioni: i gemelli allattati dalla lupa e il Tevere). Sul fronte del sarcofago la vasca decorata ad altorilievo presenta l'incontro tra Marte e Rea Silvia che, sorpresa nel sonno, una volta concupita dalla divinità resterà gravida dei gemelli Romolo e Remo. La vestale, per giacere con Marte, avrebbe lasciato la guardia del sacro fuoco del tempio, divenendo "rea" dell'incendio divampato per incuria e di aver disobbedito al voto di castità.

Nel rilievo e nella stampa remondiana sono  presenti diverse figure in pose sovrapponibili: Venere a destra e Tellus sdraiata si affrontano nella composizione marmorea, mentre nella stampa le due donne si pongono in posa speculare con il fiume che corre indisturbato tra le due sponde della città. Le annotazioni formali si rivelano stringenti nelle raffigurazioni femminili che mostrano, in ambo le prove, un ventre scolpito e fianchi generosi, un busto ampio con vita stretta e seni piccoli ma torniti; analogie che riscontriamo anche nella capigliatura raccolta tutt’attorno alla testa che si libera sulle spalle con un cascarne di composti boccoli nelle donne scolpite e incise.

Nell'incisione si potrebbe persino ipotizzare la presenza di Marte in una versione allegorica, nei panni di un mostro alato (il moscone in primo piano) dal chiaro simbolismo fallico che volge dritto verso Silvia (la donna che è di fronte) pronta ad accoglierne il fecondo seme.


Del sarcofago in oggetto esiste un disegno eseguito dalla bottega di Pisanello tra il 1431 e il 1432, che ne testimonia una circolazione in area padana, in piena temperie 
Pisanello (bottega),
FIGURE DEL SARCOFAGO MATTEI,
Pinacoteca Ambrosiana, Milano
rinascimentale come dimostrerebbe il legame iconografico con la Nuda del Campagnola e le "nude riflesse" del Raimondi. Ciò attesterebbe probabilmente la presenza dello stesso fronte marmoreo nella disponibilità degli artisti del tempo, ancor prima che entrasse a far parte della collezione Mattei della Villa celimontana al Celio. Inoltre l'incisore bolognese non è nuovo a queste imprese legate alla traduzione a stampa di sarcofaghi antichi e le connessioni tra l'arte del Raimondi e i rilievi del mondo classico sono ormai del tutto acclarati dalla critica. I riferimenti del Sogno di Raffaello al Sarcofago Mattei sarebbero un altro tassello a comprova della consapevolezza nell'uso degli stilemi classici traslati nella semantica rinascimentale, operata dal Raimondi nella sua produzione grafica.

A questo punto, forti del confronto iconografico con il Sarcofago Mattei, si potrebbe proporre un'analoga trasposizione anche per il soggetto e pensare dunque alla leggenda fondativa di Roma "narrata" dal Raimondi. Il bolognese forse ha voluto rendere omaggio alla gloriosa storia dell'Urbe, giunto ormai nella capitale ma avendo ancora negli occhi il tonalismo veneziano e il classicismo padano, e "sognando" Roma, nuova Troia.

Artedossier 319, Marzo 2015, pp 64 - 69. Giunti Editore, Firenze