sabato 4 agosto 2012

ANTONIO PESCE

Ultime luci, 2011 - acquaforte su zinco, 340x340
I contenuti di questo post sono tratti dal catalogo “Le impronte del sacro” che accompagna la mostra di Antonio Pesce in corso a Cavatore, fino al 2 Settembre, presso “Casa Felicita”.
Il catalogo a cura di Alessandro Pesce si avvale del commento critico di Gianfranco Schialvino. Si ringraziano gli autori per la cortese autorizzazione alla riproduzione dei testi e delle immagini.

  
L’INCISORE
Un felice istinto, prepotente e talvolta non controllato, una millantata sicurezza, spesso insinuata dal dubbio. È questo il notevole pregio, ed è stato talvolta il limite, delle incisioni di Antonio Pesce. nell’interpretazione schietta, ancorché cerebralmente elaborata, né mai faticata, costante e immediata della realtà, che si respira nei suoi paesaggi, negli scorci delle case, nei ruderi, nei corpi. in una natura tuttavia frequentemente armonizzata e piegata alle esigenze di un temperamento forte, nascosto ma neppur tanto sotto una pelle di modestia contadina, quella inclinazione antica ed oggi rara che concede, stretta, la fiducia, ben consapevole delle difficoltà e dell’inganno che permeano la vita. Simile appare il suo rapporto con la lastra. Quasi guardingo al principio, nei giri leggeri che la punta ricama sulla cera, poggiando lieve ad annusare contorni e profili, a saggiare linee ondivaghe che si sommano infittendosi come una pioggia autunnale, che quasi non senti e t’inzuppa, come le sete di una ragnatela che impercettibilmente avviluppa e imprigiona.


   Siamo ombre di una notte scura che non dorme mai, 2000 acquaforte su zinco, 230x490

Pesce procede accorto, a piccoli assaggi, esplorando il territorio, fissandovi i confini, difendendovi i siti preposti alla fertilità del solco. Poi l’affondo arriva improvviso, quasi aggressivo. Lo vedi nei cieli, che quasi mai sono tersi, puliti, e percorsi invece dal contorcersi di grumi che si aggregano in corpi nuvolosi tagliati da lame di luce, ed incombono su campi e cascinali, scendendo da alberi/erme/anime che legano in un tutt’uno la scena, da cui esplodono sprazzi lampeggianti e soffusi lucori a reclamare e testimoniare un sentimento ed una sensazione. È un atteggiamento di carattere, che appare ben chiaro nella successione cronologica dei lavori, dagli approcci tentati su lastre prevalentemente orizzontali, quasi per confondere il titubare del segno nella vastità della veduta. Con processioni di gelsi, muretti stentati e casali sbrecciati, tetti instabili e finestre vuote, figure indecise come fantasmi. Che via via prendono forma, quando arrivano pesanti le ombre a fissarne la massa, a dar loro corpo. e compaiono qui e là ectoplasmi di pensieri, da dietro ai panni stesi, graffiati su muri polverosi. Dapprima nei simboli della memoria, poi in una valanga di pensieri filanti che si addensano e si aggrovigliano fragili ma compatti: matasse, teppe, biche, fascine, cumuli di parole che ricostruiscono a misura d’uomo, in un intimo hortus conclusus, l’universo perduto. Per finire nel frammento, nel simbolo, nell’icona; nel concetto, aniconico questo, che definirà il tutto nella mente dell’osservatore, concludendo il cerchio magico dell’alchemico uroboro.

Gianfranco Schialvino


              La finestra, 2010 - acquaforte su zinco, 310x410


LE ACQUEFORTI

Antonio Pesce è un incisore sensibile e personale, traduce le istanze della nostalgia in termini di originale lirismo, con una finestra aperta all’approccio evocativo, al motivo pittorico di riflesso ottocentesco di remota scuola fontanesiana. La sua tecnica, ma soprattutto il suo linguaggio calcografico che “usa” la tecnica (non si fida di un mezzo che resta meccanica morta quando non è guidato da un’anima e da un’emozione) si evolve in parallelo con la ricerca linguistica di progressiva essenzialità, che si rivela nei lavori caratterizzati dal tema “presenza-assenza”, tutti giocati in termini di luce e di spazio. Dopo l’iniziale timida stesura di tocco, si è avviato a sicure elaborazioni di nitida eleganza ed è infine pervenuto ad esisti di straordinaria intensità – insieme chiaroscurale nelle masse e pittorica nella linea indagatrice –, del tutto personale, giostrata sui tagli sempre attenti nelle calibrature, su intense improvvise (ed ammiccanti) luminosità, su toni opalini e perlacei.


              Presenze, 2006 - acquaforte su zinco, 165x385


La sua poetica del sacro è semplice, limpida come la gente monferrina dalle mani spesse per il lavoro in vigna: i muri sbrecciati delle vecchie case inquadrati di sguincio e da sotto in su; il gerbido che avanza fino a invaderli, sommergerli, inglobarli; i fossi che gli ontani scheletriti custodiscono ed i rovi insidiano; i cancelletti sbilenchi dalle doghe schiodate che si appoggiano ai sassi di incostanti muriccioli in un lento “meriggiare pallido e assorto”; i tabernacoli rotti che riempivano i piloni agli incroci dei confini, marciti dal gelo e cotti dal sole, calcinati come vecchie ossa insieme alle croci ed ai Cristi di gesso di cui non restano che i piedi inchiodati. Le sue pagine incise sanno di vangelo famigliare, di rado le toccano l’artificio e la sorpresa, la parola latina e la summa teologica. Si dipanano con segni prudenti, affondano a cercare gli effetti bistrati, rafforzano con accenni a secco il paziente lavoro dell’acido. il gesto si scuote di ogni timidezza nel conforto della protezione divina, ed è affatto rispettoso: del lavoro soprattutto, ché la sua matrice è forziere. Di tempo e di fatica. Vomere la punta che incide, la vernice di cera fumosa terra fertile da scavare, l’inchiostro un seme che feconda e fa crescere sul foglio la messe. il torchio… quello non ha segreti per chi nei cromosomi possiede i retaggi ancestrali e le formule antiche del vino e dell’olio. e quando il frumento cresce irrorato dalla passione, l’artista/artigiano può chiamarsi soddisfatto, ed a buon diritto guardare con fiducia alla nuova stagione.

Gianfranco Schialvino

La torre dei miei pensieri, 2004 - acquaforte su zinco composta da due lastre, 480x290

BIOGRAFIA
Antonio Pesce nasce nel 1952 a Molare nel Monferrato, frequenta la scuola d’arte di Acqui Terme e l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano sotto la guida di Aldo Carpi. inizia l’attività pittorica prediligendo l’acquarello, il disegno e il pastello,con una forte componente di temi sacri; molte le mostre da Spoleto a Milano di notevole rilevanza.
nel 1980 inizia l’interesse per le tecniche calcografiche; anni d’immersione nella ricerca tecnica, dall’acquaforte alla puntasecca, al bulino, poi nel 1985 inizia ad essere invitato in varie rassegne d’incisione. Rappresenta ciò che il passare del tempo lascia sulle cose; cascinali nella loro ultima agonia, rovi che entrano dalle finestre e dalle porte, camini ormai spenti, stanze vuote di vita materiale ma piene di echi lontani. nel 1990 da un affinità di pensieri con lo scrittore Marcello Venturi, nasce un progetto che si concretizza in un libro d’arte “Segni del tempo”. L’opera tirata in 75 esemplari è composta da tre incisioni all’acquaforte e da tre scritti. negli stessi anni l’amicizia con lo scrittore Mario Rigoni Stern contribuisce a rafforzare lo spirito e l’anima dell’incisore. Nuovi valori umani e nuove sensazioni vengono proiettati nell’opera incisa “ciò che vale e ciò che non vale” e riappare quella sacralità che si era affievolita.
Paesaggi, uccelli neri, stanze piene di ricordi, tempi dell’infanzia unico rifugio da un mondo svuotato di veri valori, fatuo, vano; e allora quasi il voler far ritornare ciò che non è più.
Poi ancora il dolore di oggi, il dolore di vivere, la vita, la morte e l’anima, e inevitabilmente il sacro.
nel 2003 ancora determinante è stata l’amicizia con Giorgio Trentin Presidente dell’associazione incisori Veneti; uomo che ha difeso e ancora difende l’incisione nel suo rigore tecnico e nel suo valore culturale. Profondo amore per l’arte incisoria, impegno sociale e morale mirabile; preciso nelle scelte politico-culturali; volto ad usare la funzione dell’opera incisa come arma d’attacco e di difesa contro un mondo fatto d’insaziabile avidità e di sempre maggior guadagno e quindi di cancellazione e di annullamento di un patrimonio storico culturale.
nel 2008 prende vita un secondo libro d’arte con la poetessa Roberta Dapunt “l’ultima dimora - a mia madre”; dedicato alla madre morta dell’incisore. il libro è stato tirato in 14 esemplari ed è composto da due scritture e quattro incisioni all’acquaforte.
Alcuni titoli delle opere di Antonio Pesce sono tratti da versi di Roberta Dapunt.



L’ultima dimora a mia madre, 2004.
                           Acquaforte su zinco composta da quattro lastre di 190x240 su unico foglio.
Le quattro lastre stampate singolarmente fanno parte del libro “l’ultima dimora” con scritture di Roberta Dapunt.


giovedì 2 agosto 2012

INTERLUDIO 0.7

Nella lettera ad Adolfo Casais Monteiro del 13 Gennaio 1935, interrogato da questo sulla genesi dei suoi eteronimi, ecco cosa scrisse Pessoa:
«L'origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. [...] L'origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l'interno e io li vivo da solo con me stesso.»

Pseudonimo è un “falso” (pseudo) nome, cioè un nome fittizio diverso dal proprio che si adotta per esprimere i propri pensieri.
Eteronimo è un “altro” (héteros) nome cioè diverso da sé; l’eteronimo ha una sua specifica personalità, ha una sua esistenza “riconoscibile” che oggi, in modo quanto mai appropriato, possiamo definire “virtuale”, pertanto esprime pensieri diversi dall’ortonimo.

Quando scrivo queste cose sono serissimo, sono l’homo ludens nel pieno del suo gioco che mal tollera che se ne deridano le regole. Nel contempo sono perfettamente consapevole della diffidenza e dell’opposizione della maggior parte di coloro che non comprendono la scelta eteronima, però dagli artisti mi aspettavo più senso dell’ironia, probabilmente questo è un altro aspetto da prendere in considerazione nel mio tentativo in corso di definire la condizione di “vero artista”, non certo la “serietà professionale” che va dimostrata in altri ambiti, mi ci arrovello da tempo e forse come tutte le cose più volte annunciate e poi rimandate finirò col non farne nulla.
Coloro che condividono il gioco non vuol dire che approvino tutte le opinioni espresse, infatti sia alcune e-mail sia alcuni commenti sono schiettamente critici, ma quel che conta è che si siano stabilite delle relazioni fatte di scambi di opinioni e anche confidenze che restituiscono senso e valore. Non so da quale piatto penda la bilancia, ma è ovvio che non mi è indifferente e non fingerò disinteresse.

Sono solo una voce scritta, nulla di più, sono solo una voce che scaglia parole e i post di questo blog sono i frammenti concreti di un bisogno di identità e memoria. Non essendo una persona sensata ho fatto quello che era meglio non fare: li ho scritti.
Scrivere è anche una tecnica per nascondere un segreto, ma a volte dietro un segreto non c’è nulla di riprovevole; a volte dietro un segreto non c’è nulla da nascondere; a volte un segreto è solo la melodia di cui abbiamo bisogno per cullarci. Senza essermi inventato un segreto inesistente da custodire non avrei mai iniziato l’impostura di scrivere.
Ad ogni modo, vivo a mio agio la mia anomalia, al mia aberrazione, trovo un certo piacere a essere orso intrattabile, a ingannare l’altro me, a giocare ad assumere pose radicali.
Sono consapevole che le mie considerazioni hanno davvero la consistenza di bolle di sapone, quindi nessuno strumento di potere piuttosto il diagramma dell’impotenza che registra l’andamento della mia ambizione di… ero intenzionato a scrivere perfezione (nel senso di perficere = portare a compimento), ma avendo iniziato a leggere “Morti favolose degli antichi” di Dino Baldi ritengo più adeguato al mio smisurato ego (o per effetto del sole agostano?) scrivere immortalità.

Fin dall’apertura del blog mi era venuto in mente di intervallare le mie considerazioni con qualche post del tipo “Dove osano le aquile” e come il prossimo che inserirò, non importa che riferisca i dubbi che allora mi avevano indotto a desistere guidato dall’istinto che adesso mi fa ritenere giusto iniziare una serie di “presentazioni” come quando un ospite viene condotto tra amici perché un altro piacere degli incontri è poterli condividere. Lo ritengo già un ulteriore arricchimento del blog comunque si evolva, ma non intendo stilare liste o programmi.
Non mi interessa fare bilanci per compiacermi, valuto se fin qui il percorso ha avuto un senso e tutti i post etichettati “interludio” riflettono sulle scelte e le motivazioni.
Le volte che ho ritenuto di non aver più nulla da dire si è concretizzato un nuovo spunto e così il blog è progressivamente cresciuto. Nonostante non ci sia mai stato un progetto preordinato appare coerente sia nella struttura che nei contenuti e con documentati riscontri di una qualche utilità.
Non è che inizino a scarseggiare gli spunti polemici, se ne presentano quasi quotidianamente, ma per lo più inciampano tutti (per ignavia o per arroganza) negli stessi problemi e, contrariamente a quella che sospetto sia l’opinione comune, non mi interessa trovare artificiosi pretesti ad ogni costo. Fin ora non c’è stato alcuno sforzo, tutto è risultato spontaneo e l’intenzione è che resti tale, non ho alcun vincolo d’impegno, proseguirò (se proseguirò) secondo l’estro, la voglia e le necessità.
E poi c’è il vecchio trucco di non fare niente in attesa che arrivi l’ispirazione (un buon alibi valido anche per il lavoro degli artisti): funziona sempre, lo utilizzò Stendhal che dice nella sua autobiografia: “Se verso il 1795 avessi comunicato a qualcuno il mio progetto di scrivere, qualunque persona sensata mi avrebbe consigliato di scrivere due ore tutti i giorni, con o senza ispirazione. Queste parole mi avrebbero permesso di sfruttare i dieci anni della mia vita che ho completamente sprecato aspettando l’ispirazione”.