domenica 27 marzo 2011

TRADIZIONI TRADUZIONI TRADIMENTI

John Sartain
Demoni e dannati
da Luca Signorelli,
Duomo di Orvieto,Cappella di San Brizio.
acquaforte.
lastra mm 325 x 435
foglio mm 335 x 495






Chi visiterà la mostra “Dante Gabriele Rossetti, Edward Burne-Jones e il mito dell’Italia nell’Inghilterra vittoriana”, allestita presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma fino al 12 Giugno 2011, troverà nella prima delle dieci “stanze” che scandiscono il percorso espositivo, una raccolta di opere di riproduzione incise e in cromolitografia. Può apparire un aspetto marginale rispetto alle problematiche storiche e critiche dell’arte, ma non lo è rispetto al valore e al significato della conoscenza e della divulgazione delle opere d’arte attraverso le loro riproduzioni.
Sintetizzando i testi in catalogo di Giorgio Marini e Maria Francesca Sonetti, l’interesse dei Preraffaelliti per la cultura dei “primitivi” italiani si coagulava attorno alle riproduzioni degli affreschi del Camposanto di Pisa incise all’acquaforte da Carlo Lasinio (1759-1838) formatosi fra Treviso e Venezia nello stesso ambiente e negli stessi anni di Antonio Canova. Le grandi tavole, riunite in un volume in folio, erano incise con un tratto sottile, quasi a contorno e con pochissime indicazioni chiaroscurali, inoltre la mancanza di prospettiva rinascimentale doveva costituire agli occhi dei Preraffaelliti un insperato antidoto contro ogni convenzione accademica, esercitando, in forza della loro serena ingenuità compositiva, il fascino di un paradiso perduto tutto da riscoprire.
L’ambiziosa impresa di riprodurre in incisione tutti gli affreschi del Camposanto era stata suggerita a Lasinio dal poligrafo Giovanni Rosini e dall’appoggio culturale di Leopoldo Cicognara che era divenuto sostenitore dell’incisore veneto tanto da favorirne la nomina a conservatore del monumento pisano.
L’efficacia interpretativa della raccolta si deve anche all’impegno degli artisti che avevano fornito i disegni tra i quali Francesco Nenci e il figlio di Lasinio Giovanni Paolo. Proprio il giovane Lasinio pubblicherà, nel 1832, un’edizione in formato ridotto, con immagini, tratte dalle incisioni del padre, rese a soli contorni di cui resta anche una tiratura colorata a mano. I rami si trovano presso l’Opera della Primaziale di Pisa e l’impatto di questa versione più accessibile nelle sue dimensioni contenute dovette essere ancora più significativo.
Nell’Inghilterra vittoriana il recupero, la conoscenza e la diffusione dell’arte dei “primitivi” italiani ricevettero una particolare attenzione da parte dell’Arundel Society che con i suoi intenti didattici ed educativi, supportati da numerose pubblicazioni, contribuì a formare anche quella coscienza intorno ai problemi conservativi che sono poi divenute patrimonio della cultura contemporanea.
La denominazione della società deriva da Thomas Howard Conte di Arundel collezionista del XVII secolo.
È importante sottolineare che alla ricca produzione editoriale, che si colloca interamente nel campo della traduzione delle opere d’arte, collaborarono diversi disegnatori e incisori italiani come ad esempio Cesare Marianecci, Nicola Consoni, Bartolomeo Barroccini, Achille Ansiglioni, Andrea Belloli.
Le prime opere pubblicate per i membri associati testimoniano ancora di interessi a carattere prevalentemente antiquario, che difficilmente potevano far presa su un largo pubblico, che di fatto, ancor prima di essere formato ed educato, doveva in qualche modo essere affascinato e attratto. All’inizio le difficoltà di riscontri furono causate se non proprio dalla scelta dei soggetti trattati, dal genere e dallo stile delle riproduzioni, che apparivano troppo sommarie e non abbastanza fedeli, oltre che antiquate rispetto a quanto ci si poteva ormai aspettare dai progressi che andava facendo la fotografia che tuttavia, sebbene fosse il mezzo di riproduzione meno soggetto a distorsioni interpretative, non permetteva ancora di essere utilmente adottata per la ripresa di pitture, soprattutto affreschi, a causa dei limiti tecnici dei tempi di esposizione in ambienti poco illuminati e delle emulsioni non ancora sensibili a tutti i colori dello spettro.
La cromolitografia era in quel momento, nel campo della stampa e della riproduzione, il procedimento che poteva assicurare le maggiori garanzie di fedeltà con l’originale. Il procedimento, che era stato introdotto ufficialmente dallo stampatore e litografo francese Godefroy Engelmann (1788-1839), permetteva un uso della tecnica altamente sofisticato, giungendo fino all’impiego di 25 pietre per i diversi colori.
Nel 1856 fu pubblicata la prima cromolitografia dell’Arundel, riproducente il Martirio di San Sebastiano del Perugino realizzata da Ludwing Grüner traendola da una copia ad acquarello di Cesare Marianecci che, per diversi anni, risulta essere quasi l’unico referente dell’Arundel per la traduzione degli affreschi quattro-cinquecenteschi nell’area umbro-toscana. Tra tutti gli acquerelli realizzati quelli tratti dal ciclo di affreschi della Cappella Brancacci al Carmine di Firenze ebbero una certa risonanza anche in Italia, dove purtroppo le pubblicazioni dell’Arundel non trovarono mai un’ampia diffusione.
Il tentativo di conciliare gli interessi di documentazione e di studio con le esigenze divulgative e considerazioni di tipo commerciale, indulgendo ad effetti maggiormente decorativi, fece sollevare la polemica intorno alla questione delle “copie restaurate”, poiché molti ritennero inopportuna la differenza tra il reale stato di conservazione degli affreschi e l’aspetto con cui venivano mostrati nelle cromolitografie dove appunto apparivano come “restaurati”. Successivamente però, all’opposto, finì con l’attirarsi critiche anche il litografo Christian Schultz per la sua resa “dagherrotipica” delle più minute crepe sull’intonaco. D’altra parte alla base di questo tipo di traduzioni c’era già l’utilizzo della fotografia che, con le sue pretese di assoluta oggettività, favorite dal rapido progresso tecnico rese superato ed antieconomico ogni procedimento manuale.
Nei primi anni novanta emergono significative difficoltà economiche per la diminuzione dei membri associati e per il calo di vendita delle stampe, tanto che non vennero commissionate nuove copie e per le ultime edizioni si utilizzeranno acquerelli eseguiti anni prima, pervenendo alla definitiva chiusura il 31 Dicembre 1897.
L’Arundel Society non aveva fini di lucro pertanto tutti i profitti erano reinvestiti nelle attività promosse e si stima che siano stata poste in commercio non meno di 200.000 riproduzioni.

Rientrato a casa ho voluto confrontare le cromolitografie riprodotte in catalogo con le riproduzioni fotografiche presenti nelle attuali monografie. Nonostante i moltiplicati passaggi riproduttivi il confronto appare strabiliante, personalmente attribuirei il vantaggio alle cromolitografie. Certamente il livello di specializzazione e il talento delle diverse maestranze chiamate a collaborate era di qualità assoluta; molti passaggi del procedimento riproduttivo non mi sono noti e probabilmente se ne è persa memoria. Nella fase di copia dell’opera si potrebbe ipotizzare un uso della camera ottica, già documentata nei secoli precedenti, e se penso alle difficoltà di messa a “registro” delle diverse “battute” litografiche… non si può non restare ammirati: solo perizia e tecnica artigianale, certo, ma di quale sublime qualità. Nonostante tutto non può esserci alcun rimpianto e una nota finale sull’incisione contemporanea è d’obbligo (per altre considerazioni al riguardo rimando al post SULLA CRISI).
Accantonata l’incisione come mera tecnica riproduttiva, c’è da chiedersi se  può considerarsi ancora attuale il suo valore come linguaggio, la sua imprescindibile necessità espressiva, se cioè per un artista vi sono immagini che possono essere rese solo attraverso la specificità del linguaggio grafico delle tecniche dell’incisione.
Anche le lingue “muoiono”, pur continuando a custodirne la memoria delle regole grammaticali e delle strutture sintattiche codificate, in campo artistico basta sfogliare un manuale di Storia dell’Arte per sentirsi disorientati dalle evoluzioni, dai cambiamenti dalle fughe in avanti, dai “ritorni all’ordine”…. e come alcune tecniche siano andate in disuso.
L’arte dell’incisione non può avere ragion d’essere solo compiacendosi del proprio anacronismo se vuol continuare ad essere considerata arte e non residuo di superate pratiche artigianali.

mercoledì 23 marzo 2011

PRESUNTI MERITI

Richard Müller
Das große Tier II – sitzend (Il grande animale II, seduto)
acquaforte,1919.








Una e-mail da Venezia intitolata “Meriti fasulli”, pubblicata nella rubrica “La parola ai lettori” del numero 76 della rivista “Grafica d’arte”, e la relativa risposta del Direttore, stigmatizzano «…quegli artisti che, nei dèpliant delle loro mostre, citano la presenza nel Repertorio come un titolo di merito». Il Repertorio al quale si fa riferimento è, ovviamente, quello di Bagnacavallo che «…non può essere considerato in alcun modo un titolo di merito dal momento che basta inviare la documentazione richiesta per esservi inclusi».
Tra gli ulteriori meriti dubbi possiamo annoverare:
Dichiarare di aver partecipato ad una certa biennale, pur essendo stati scartati e non essere inseriti in catalogo; è certo un dato di fatto che il lavoro sia stato inviato, ma di per sé può ritenersi un “merito”?
Citare la presenza nella “Raccolta Bertarelli” per aver partecipato ad un concorso che vi depositava tutti i lavori pervenuti, anche quelli non selezionati (rimando al post precedente “Onore al merito”); è un altro dato di fatto, poiché il lavoro si trova effettivamente presso la “Raccolta”, ma in cosa è consistito il merito?
Questi, ed altri che ciascuno potrebbe individuare, sono tutti “titoli” avvalorati dal fatto che mai nessuno si prenderà il disturbo di confutarne il merito.
Vorrei poter leggere lo stesso depliant che ha irritato il lettore veneziano per aver conferma che qualche sedicente “artista” (doverosamente virgolettato) possa considerare l’inserimento nel Repertorio un “merito” e in tal caso la risposta del Direttore coglierebbe, ancora una volta, “Nel segno”.
Generalmente nel depliant è riportato anche il paese dove l’artista è nato senza che questo possa in alcun modo far ritenere che si stia rivendicando un merito e non vorrei che si finisse col sospettare vanterie dietro ogni dichiarazione, ma, evidentemente, la formulazione portava a una tale interpretazione. Tuttavia sono più propenso a credere che ci sia alla base un malinteso generato da quelle cosiddette “Brevi Note Biografiche” che, a dispetto della dovuta sintesi, finiscono col contenere biografia-bibliografia-mostre-premi-dituttoedipiù affastellati spesso con incerta punteggiatura.
Pochissimi sono gli incisori viventi che possono rimandare ad una monografia esauriente sulla loro attività (ché si stenta a disporre anche di quelle sui maestri del passato), pertanto fare riferimento ad una fonte bibliografica in alcun modo può essere intesa come una rivendicazione di merito: semplicemente, per chi ne vuol sapere di più, si rimanda ad un repertorio facilmente reperibile e consultabile (ora anche on line).
Adesso i siti internet rappresentano una valida documentazione dell’attività di un artista, ma permangono ampie lacune.
Vedo meno vanagloria nel fare riferimento ad un repertorio dove si è presenti insieme ad altri cinquecento piuttosto che citare nomi illustri, presunti testimoni, che “si sono interessati alla sua opera…”, magari solo perché, a ben vedere, hanno cortesemente risposto all’invio di una incisione o di una qualche pubblicazione non richiesta; oppure la testimonianza dell’ Affermato Maestro la cui presentazione consiste nello scusarsi per non essere in grado di scrivere una presentazione. Ho fatto riferimento a due episodi concreti (avvalorabili con nomi che in questa occasione non servirebbe chiamare in causa) e all’opposto estremo mi viene in mente Balthus che una volta essendo in ballo una grande mostra e Sabine Rewald era partita dall’America per intervistarlo, chiedendogli quando era nato la risposta fu un sorriso. Fine dell’intervista. E un’altra volta, a John Russel che gli aveva chiesto notizie Balthus rispose con un telegramma che diceva: «Non ho niente da dire. Guardate i mie quadri».
La dichiarazione può anche essere intesa come una esortazione ad interessarsi esclusivamente, o principalmente, delle opere, se di interesse risultano degne, ma non è così ovvio perché l’atteggiamento di Balthus esprime tutt’altro che modestia e sul processo di costituzione dei meriti, reali o presunti, chiariscono benissimo le parole di Giacomo Leopardi: «O io m’inganno o rara è nel nostro secolo quella persona lodata generalmente, le cui lodi non sieno cominciate dalla sua propria bocca. Tanto è l’egoismo, e tanta l’invidia e l’odio che gli uomini portano gli uni agli altri, che volendo acquistar nome, non basta far cose lodevoli, ma bisogna lodarle, o trovare, che torna lo stesso, alcuno che in tua vece le predichi e le magnifichi di continuo, intonandole con gran voce negli orecchi del pubblico, per costringere le persone sí mediante l’esempio, e sí coll’ardire e colla perseveranza, a ripetere parte di quelle lodi. Spontaneamente non isperate che facciano motto, per grandezza di valore che tu dimostri, per bellezza d’opere che tu facci. Mirano e tacciono eternamente; e, potendo, impediscono che altri non vegga. Chi vuole innalzarsi, qualunque per virtù vera, dia bando alla modestia».

giovedì 17 marzo 2011

ONORE AL MERITO


Giuseppe Maria Mitelli
Il mondo è per lo più gabbia di matti
acquaforte, 1684















Le mostre che espongono incisioni, che si tengono in Italia (fingere relazioni internazionali smaschererebbe “il mio provincialismo”) e delle quali vengo a conoscenza, ho deciso di segnalarle tutte indiscriminatamente. Ritengo che più cose si vedono meglio è, solo avendo la possibilità del confronto più ampio si può discriminare la qualità.

Ritenevo che potesse risultare utile pubblicizzare i bandi dei concorsi dei quali vengo a conoscenza, ma in alcun modo mi sentirei di proporre, implicitamente avvalorandole, iniziative speculative in cui la partecipazione a pagamento è dissimulata da “diritti di segreteria” che, con un facile calcolo, dimostrano il guadagno netto che si ricava ammettendo quanta più gente possibile, e quale merito rappresenta per l’artista essere ammesso solo in virtù della quota versata?

Se tutte le opere presentate ad un dato concorso vengono donate alla “Raccolta Bertarelli” quale merito rappresenta per l’artista, che non è stato preso in considerazione neanche per la mostra, citarla tra le collezioni pubbliche di riferimento? E quale guadagno per la “Civica Raccolta” nell’acquisire tali “scarti”? Invece si capiscono benissimo tutti i vantaggi di chi organizza il concorso.
Intendiamoci, potrebbe verificarsi che la qualità sia così eccelsa che anche le opere escluse risultino dei capolavori, ma, tendenzialmente, è il mediocre dilettantismo che se ne avvantaggia.

Potrebbe sembrare che stia a spulciare i pretesti per polemizzare, invece i motivi sono ostentati e io rimango sedotto dall’articolo 5 del “Concorso Nazionale di Incisione 2011” che così recita: «Le altre opere pervenute potranno essere ritirate presso la sede dell’Associazione Nazionale Incisori Italiani, dal 16 al 21 Maggio 2011, con orario 9,00 – 12,00. Le opere non ritirate resteranno acquisite dal Museo della Grafica Italiana con sede a Vigonza, verranno esposte successivamente nella Galleria di Vigonza ed in seguito pubblicate su catalogo.»
Ho trascritto tutto correttamente, ma quel che interessano solo gli ultimi due righi, e avete capito bene: le opere si possono ritirare solo prima della mostra e della pubblicazione.
A parte il vincitore del premio unico, consistente in una mostra personale, il “solo” che ha “l’obbligo” della cessione del foglio inviato (art. 4), ve lo immaginate quell’artista che, dopo aver spedito l’opera, appreso di non essere il vincitore, si parte (chi la rivuole deve andarsela a prendere), poniamo… dalla Sicilia (la regione più vicina a Vigonza che viene in mente), per ritirare l’opera precludendo così la possibilità che venga esposta e pubblicata?
Mi rendo conto che si aspiri a distinguersi, sempre e comunque, dagli altri (tanto da continuare a chiamarlo “Primo Premio Grafica Italiana” anche se sono già tre, o quattro, anni che si ripete), ma rispetto ad una tale impostazione non so se dubitare della buona fede, o delle capacità sintattiche, oppure restare ammirato dalla contorta evoluzione strategica. Un atteggiamento così subdolo, che sa anche di beffa, non si riscontra neanche nei peggiori opportunisti, è deprecabile che sia stato architettato da artisti nei confronti di altri artisti. Perché non dichiarare chiaramente gli intendimenti?
Se gli artisti, sempre desiderosi di mostrare i propri lavori, appaiono restii ad aderire, qui vi è già una valida spiegazione.
Auguri, comunque, di buon lavoro.

venerdì 11 marzo 2011

SOTTOSOPRA

Marc Chagall
Al cavalletto
Puntesecca, Tav. 18 per “Ma vie”. Ed. Paul Cassirer, Berlino 1923
















Voleva essere un’annotazione scritta quasi in diretta, ma, essendo monomaniaco, si è rivelata ancora un altro pretesto per divagazioni sopra, o sotto, o tra, le righe.
La mostra dedicata a Chagal col titolo “Il mondo sotto sopra”, aperta fino al 27 Marzo presso il Museo dell’Ara Pacis di Roma, non è una “grande” mostra, ma è una “bella” mostra: misurata, equilibrata, se ne gode la visita senza sentirsi frastornati, senza l’ansia che a volte prende in certe antologiche.
Centotrentotto opere di piccolo o medio formato, per lo più su carta, quasi a corredo dei dipinti esposti, realizzate fra il 1917 e il 1982, ripercorrono l’iter artistico del maestro di Vitebsk. Un piccolo catalogo elenca tutte le opere esposte, ma ne riproduce solo una minima parte accompagnandole con un’ampia scheda di lettura.
Se qui se ne fa cenno è perché l’incisione vi trova una parte non secondaria nel contesto generale, certo comunque una goccia rispetto alla quantità di opere realizzate.
Momenti di vita quotidiana inscenano spettacoli incantati con panorami da fiaba, spazi insondabili, animali variamente ibridati, architetture sghembe… con le rispettive cariche simboliche, non sempre d’immediata interpretazione, che possono entrare in conflitto reciprocamente. Ogni legge di gravità risulta annullata, si trasgrediscono le norme dell’ordine classico cui soggiace solitamente qualunque raffigurazione, un mondo a soqquadro non a causa di catastrofi bensì sulla scia dell’incanto e del piacere.
La “deriva sognate” nella quale Chagall trascina tutti i soggetti della sua produzione fu recepita molto positivamente agli esponenti del surrealismo, che non si stancarono mai di sollecitarlo – inutilmente- ad unirsi ufficialmente al movimento.
Tra le incisioni in mostra quattro tavole per all’autobiografia Ma vie. Quando nel 1922 Chagall lascia la Russia per recarsi a Berlino viene accolto come un pittore affermato grazie al lavoro del mercante Walden. Ben presto l’editore Paul Cassier gli propose di pubblicare il testo autobiografico Ma vie con delle illustrazioni che saranno però stampate autonomamente nel 1923, in quanto il testo si rivelò di difficile traduzione. È proprio per la realizzazione di questo progetto che Chagall apprende le tecniche dell’incisione, maturando rapidamente una notevole abilità e facendone il mezzo espressivo privilegiato per illustrare successivamente le grandi opere letterarie (Le anime morte di Gogol, Le favole di La Fontaine, la Bibbia) per il mercante parigino Vollard. Nelle propria autobiografia intitolata “Ricordi di un mercante di quadri” (Torino 1959, edizione originale Paris 1948), Ambrosie Vollard dichiara: «Ho sempre avuto una grande passione per le stampe. Fin da quando mi allogai in rue Laffitte, verso il 1895, la mia più alta ambizione fu di pubblicare incisioni, ma che fossero opera di pittori. “Pittore-incisore” è un termine di cui si è poi abusato, applicandolo a professionisti dell’incisione che erano tutto fuorché pittori (All’epoca di Vollard l’incisione, utilizzata ancora come mezzo di riproduzione, era prerogativa di abili artigiani ndr.). La mia idea era invece di chiedere delle incisioni ad artisti che non facessero gli incisori di professione. Poteva essere considerato un ghiribizzo: finì per diventare un grande successo artistico.»
Alcuni fogli tratti dal ciclo della Bibbia sono accompagnati dalle lastre di rame originali. Mi emoziona sempre tantissimo poter vedere le lastre perché è lì che il maestro ha messo le mani (feticismo? E se anche fosse?). Nella lastra i valori chiaroscurali si perdono, ma si colgono gli interventi diretti, si riconoscono i ripensamenti, i segni delle diverse tecniche adottate… Il linguaggio grafico di Chagall è immediato e la realizzazione rapida, delinea l’immagine sulla lastra preparata per l’acquaforte senza aver prima realizzato un disegno o un schizzo di studio. La lastra è come un foglio, lascia spesso ampie zone non incise e raramente si spinge fino ai margini incidendo interamente la superficie. La morsura è piana, successivamente interviene con la puntasecca, anche punzonando la lastra, per aggiungere segni o riprenderli e fa uso del brunitoio soprattutto per “sgranare” le aree di acquatinta quando è presente.
Chagall adotta un segno che è l’equivalente delle sua particolare stesura pittorica dove le campiture non sono mai delimitate, i contorni si sfaldano e ogni colore s’intreccia con quelli adiacenti. La stampa in nero nulla toglie al colorismo pittorico, anzi per certi aspetti ne rende le atmosfere più sospese e visionarie.
«Sono sicuro che Rembrandt mi ama!» esclama Chagall nelle ultime pagine del suo racconto autobiografico.
La lettura iconografica e iconologia che si può fare di ogni singola opera prescinde dalla specifica tecnica adottata e se questo fosse un saggio non si dovrebbero trascurare anche le implicazioni storiche e sociali, ma qui solo di incisione su vuol discutere e si può pensare che questi siano solo tecnicismi riservati agli “addetti ai lavori”, invece li ritengo aspetti che un autentico appassionato non può disconoscere. Certo occorre tempo e attenzione per apprezzarne le sfumature. C’è chi colleziona grafica solo perché non può permettersi i costi di un “pezzo unico” e c’è chi per risparmiare ulteriormente colleziona ex libris. A costoro, spinti per lo più dall’ansia dell’accumulo, è precluso ogni godimento estetico (o estatico?). Se ci si appassiona sinceramente all’incisione è per la sua specificità perché l’incisione non è un disegno riprodotto in più copie, il suo segno non è di matita o di penna a due dimensioni, ma è vivo di materia addensata.
Riprendendo la visita della mostra, completano il corpus delle incisioni esposte alcune acqueforti e puntasecca degli anni 1952–56 e quattordici illustrazioni per il ciclo  Colui che parla senza dire nulla” del 1975-76.
Dall’edizione dei “Poèmes”, pubblicati da Cramer a Ginevra sono tratte alcune pagine con le poesie dello stesso Chagall, scritte per lo più tra il 1910 e il 1922, e illustrate, a fronte, da xilografie a colori incise nel 1968. Nelle xilografie non intendeva realizzare delle illustrazioni nel senso stretto del termine, ma rievocare le impressioni della sua giovinezza, la seduzione della città natale, i primi amori, la scoperta di Parigi… restituendo in immagine lo spirito surrealista dei suoi testi.
Tra le litografie segnalo Ia serie intitolata “Nizza e la Costa Azzurra”, tutte numerate e  firmate da Chagal riportano in calce la seguente dicitura: “Ch. Sorlier sculp. Marc Chagall pinx”: cose d’altri tempi, quando l’editore non doveva fingere che fosse stato lo stesso artista a lavorare sulle pietre e al maestro litografo era riconosciuta la dignità del lavoro svolto [per la cronaca è al rientro a Parigi dopo il soggiorno in America durante la seconda guerra mondiale che Chagall incontra, presso Fernand Mourlot, il giovane stampatore Charles Sorlier (1921 – 1990) che diventerà il suo più fidato collaboratore per il resto della della vita].In fondo è tutto qui l’aspetto controverso del concetto di originalità. Come far capire che questi fogli che dichiarano come stanno effettivamente le cose non valgono (commercialmente) meno di altri che non sono mai passati su una “pietra” essendo mere riproduzioni fotografiche? Come si può far intendere a chi acquista certi fogli firmati Guccione che un solo segno di “vera” acquaforte sovrapposto ad una riproduzione non trasforma la base fotografica in una “autentica” acquatinta?
Adesso tutto appare sottosopra, ma a parlare di queste cose si è tacciati di essere “bottegai”, di voler condizionare la libertà espressiva degli artisti, infatti i critici non se ne occupano. In effetti non è che l’ortodossia della tecnica abbia mai garantito il capolavoro, però neanche la trasgresione fine a se stessa. “Quel che conta è l’idea”, si dice, essendo indifferente chi la realizzi materialmente; anche anticamente di rado l’opera era tutta di mano del maestro, piuttosto era frutto di un lavoro di bottega; così nel campo dell’architettura non vi è dubbio che la paternità di un’opera spetti al titolare dello studio anche se il progetto è stato elaborato collettivamente e la realizzazione affidata alle maestranze dell’impresa costruttrice; così anche per le opere concettuali e per tutte le cosidette “installazioni”.
Mi rendo conto che col pretesto di Chagall avevo iniziato a volare alto e mi sto ritrovando a strisciare: ma cosa c’entra la libertà espressiva con lo “spacciare” una tecnica per un’altra?
Pare che ribadendo questo argomento si finisca solo col pestare acqua nel mortaio col risultato che oggi trovare in commercio un’incisione originale di un artista contemporaneo è diventato difficilissimo (qualche catalogo di vendita sopravvive e la via più semplice è divenuta quella di contattare direttamente l’artista), mentre i deprecati fogliacci continuano a vendersi presso tutti i corniciai e se entrando in una qualche galleria vi capiterà di vedere in un angolo una cassettiera, cosa pensate che possa contenere?
Adesso solo perché la stampa digitale è ritenuta cool nel circuito dell’arte “contemporanea” se ne dichiara l’uso volendo apparire al passo coi tempi.
Diversi artisti dedicano ancora una parte del loro lavoro all'espressione grafica, in nulla considerandola un fatto secondario, eppure, anche nel caso dei più noti e corretti, quante pagine vengono dedicate ai loro dipinti (o sculture) e quante righe negate alle loro stesse incisioni? Così nel caso degli incisori "puri" il destino sembra ineluttabilmente segnato.

Là où se pressent des maisons courbées
Là où monte le chemin du cimetière
Là où coule un fleuve élargi
Là j’ai rêvé ma vie

Marc Chagall, Poèmes, Cramer Éditeur, Genève 1975, pag. 21

(Laddove si accalcano case ricurve / Laddove sale il cammino al cimitero / Laddove scorre un fiume e s’ingrossa / Là ho sognato la mia vita)

INTERLUDIO 0.1

In sostanza il blog è l’equivalente del Caro Diario e, senza ipocrisia, chiunque tenga un diario lo fa nell’eventualità che, prima o poi, qualcuno lo legga, che adesso lo si possa scrivere “in rete” è solo un effetto del cambiamento dei tempi.
Come già scritto (vedi post “Dovere di Critica”) “Per la robaccia e anche per la robetta non si dovrebbero sprecare parole…”. Le considerazioni sono sempre abbastanza articolate, elaborarle richiede tempo, pertanto, parafrasando, «io scrivo quando posso e come posso, quando ne ho voglia, senza applausi o fischi, vendere o no “non passa” fra i miei rischi, non leggete i miei scritti e sputatemi a dosso…»

lunedì 7 marzo 2011

BINARIO MORTO


Max Klinger
 Auf den Schienen  (Sui binari) particolare
Acquaforte















Che il vagone dell’incisione sia sganciato dal treno dell’arte contemporanea è un fatto assodato, resta da comprendere se continua, in qualche modo, a procede anche solo per forza d’inerzia, oppure sia finito in un binario morto o si sia già arrestato senza che i viaggiatori se ne siano ancora accorti.
La valutazione di un’incisione il suo riconoscimento all’interno di un particolare processo creativo, la stessa capacità di avvertire il senso di una iniziativa culturale, sono sottoposti alla pratica machiavellica del potere, all’ostracismo cultural-politico, all’ottusa e grezza ignoranza di amministratori pubblici e privati. Spesso si dà il via a iniziative nelle quali sostanzialmente non si crede e le prime difficoltà offrono ragioni a una fede negativa. Così si bruciano esperienze, si preferisce cambiare registro.
Gli incisori più determinati continuano a fare il proprio dovere: incidono. La domanda è immediata: il proprio dovere, certo, ma, alla sostanza, per chi?
Incidere è un rapporto, un legame, dell’io nel mondo, della persona in quel complesso di eventi che chiamiamo realtà. Questo rapporto vive senza bisogno d’imperativi, è esso stesso una realtà. Tuttavia la consapevolezza che il proprio lavoro rischi di risultare solo un gioco autistico erode il significato del dovere poiché ciò che dà nervi a esso non è riconosciuto in niente su quell’altra parte di treno che invece corre e non per forza d’inerzia.
Molta intelligenza si deprime, tra gli incisori italiani qualcuno, pur di esserci, ripropone i lavori incisi decenni addietro. Lavorare alla luce di una tradizione che ci appartiene - chiamiamola tradizione della nostra modernità - senza inciampare in quello sperimentalismo che rischia di rendere ogni tentativo afasico. Tuttavia questa coerente coscienza d’arte non è riconosciuta che da pochi, da pochissimi. È vero, non bisogna dimenticare che siamo nello stretto ambito dell’incisione, un’arte, per sua vocazione e natura, riservata a un circolo sempre più ristretto di quello attento ad altre forme d’arte, perché l’impatto emozionale provocato da una piccola incisione in bianco e nero non è alla portata di tutti.
Sul vagone dell’incisione viaggiano anche artisti incisori di assoluta qualità, una complessità, una diffusa consapevolezza e una varietà di stili e di immaginazione che forse non hanno confronto in Europa e nel mondo, ma su quei vagoni viaggia anche più di una colpa: Il boom dell’incisione degli anni settanta-ottanta (del secolo scorso) è stato, in verità, il successo della truffaldina grafica colorata, l’incisione originale in bianco e nero, che si è sempre venduta poco, da quel ciclone ne ha tratto un effimero vantaggio ma rimanendone travolta.
Presso gli storici, omertosi, è diffuso un atteggiamento di salomonico distacco; la grande maggioranza dei critici, conniventi, continua a osannare artisti, dispensando lodi ecumeniche un tanto al rigo; il “pubblico” diffida perché restano irrisolte troppe ambiguità tecniche (l’incerta originalità) e di mercato (quotazioni gonfiate solo per consentire sconti da svendita fallimentare). Non si è fatto intendere, con la forza necessaria, il rigore necessario, l’urgenza di un superiore disinteresse, quello che sempre deve governare ogni verità espressiva. Non voglio dire che il profitto non debba essere rispettato (anzi lo ritengo un significativo indice d’interesse e in un prossimo post ne argomenterò le motivazioni) ; dico che bisognerebbe commisurare la bontà dei progetti condivisi alle possibilità di tradurli in reale affermazione. La manifestazione di un tale disinteresse impegnerebbe i collezionisti, i cosiddetti amatori e i semplici curiosi a una diversa considerazione della realtà delle cose, a un rispetto dei significati e dei valori unici che una pagina incisa manifesta.
Così la risposta alla domanda fatta all’inizio - il dovere verso chi? - non può non tenere conto che il dovere verso se stessi ha la complicanza d’essere anche un dovere che in altri trova la propria verifica.

mercoledì 2 marzo 2011

INCISIONE vs STAMPA


Richard Müller,
Todeskampf (lotta con la morte)
Acquaforte, 1913















Nel numero 3 del 2010 di “Printmaking Today” in un articolo che presentava il nuovo gruppo dirigente che guiderà la Triennale di Cracovia dopo la morte del fondatore Witold Skulicz, mi ha colpito la seguente affermazione: «The era of printmaking being restricted to modest format works in traditional tecniques, framed being glass, has gone –although such works will of corse always be made and should continue to accepted in international competitions. At the same time, works that are callenging in form, size and medium will be created, particulary by the new and emerging generations of artists.»
In sostanza: l’incisione tradizionale di piccolo formato “è andata” (l’espressione rende anche tradotta alla lettera), qualcuno continuerà a praticarla e potrà essere accettata nei concorsi, ma l’interesse sarà per le nuove tecniche. Nel prosieguo dell’articolo si aggiunge che l’unica condizione sarà la riproducibilità, anche solo nella forma di un file digitale, senza inoltre escludere le possibilità di modellazione computerizzata in 3D.
Chi fosse interessato a partecipare alla prossima edizione del 2012 potrà regolarsi.
Basta qualche clik in Internet per farsi un’idea dello stato dell’arte dell’incisione nel mondo.
Trovare una piccola acquaforte incisa con un bel segno e stampata in nero, di quelle che mi fanno trattenere per un attimo il respiro dall’emozione e, avendola tra le mani, sfiorarne il rilievo dell’inchiostro, magari decidendo di averla sempre sott’occhio incorniciandola (cosa che i curatori di Cracovia aborriscono) è una rarità; stranamente è più facile imbattersi in virtuosi dell’incisione xilografica, se si riesce a districarsi tra ibridazioni tecniche in piano, in cavo e in rilievo…, colore colore colore…, uso diretto delle matrici per installazioni (non per trarne stampe)… e soprattutto immagini elaborate o create al computer e stampate in digitale. Segnalo infine, a titolo di cronaca, che nello stesso numero della rivista è illustrata la realizzazione di una xilografia incidendo la matrice di legno tramite un intagliatore laser digitale dopo averne acquisito l’immagine al computer.
Si resta un po’ storditi, con quel senso di nausea che prova un amante dei piatti della cucina regionale nel sentir parlare di “cucina molecolare”.
A scanso di equivoci, la sempre invocata libertà di espressione dell’artista non è minimamente in discussione e neanche la scelta di mezzi, strumenti e tecniche, sono i risultati del processo creativo ad essere valutati, rispetto ai quali la tecnica non è mai indifferente, e non si tratta neanche di contrastare il progresso, qui rivendico le mie preferenze, se non altro di gusto, rispetto ai linguaggi e i contenuti.
Non mi sembra che in Italia ci si sia già spinti a tanto (risulteranno utili segnalazioni in merito), i più spregiudicati usano il carborundum e la collografia, e le rassegne, piccole e grandi, impongono la clausola sull’uso delle tecniche tradizionali di incisione e stampa escludendo anche serigrafia e litografia.
Mi sono interrogato su questo scarto e io stesso non sono del tutto convinto della fondatezza della considerazione che sto per svolgere, ma la propongo come una riflessione con me stesso.
Se le parole hanno un significato preciso la differenza tra “Triennale Internazionale dell’incisione”, come diremmo noi, e “International Print Triennial” non è da poco, così si è affacciata la possibilità che l’aspetto lessicale possa aver determinato un qualche condizionamento, racchiudendo in sé la chiave dei comportamenti.
Non tenterò un’analisi comparata del valore semantico dei termini relativi all’arte dell’incisione nelle diverse lingue (non ho adeguate competenze, anche se sarebbe utile e interessante), mi limito semplicemente al confronto, tra l’italiano e il diffusissimo inglese, del vocabolo di maggior uso comune.
Nelle lingue anglosassoni il termine di riferimento è “print” (stampa) con tutte le espressioni che ne derivano.
Da noi a nessun artista verrebbe di parlare di “stampe” per le sue opere, generalmente dirà “incisioni” e si definirà “incisore” e solo per far realizzare la tiratura si rivolgerà ad uno “stampatore”. In tal modo si pone (inconsciamente?) in risalto la tecnica di realizzazione, fino ad usare l’espressione “foglio inciso” che, al di là della suggestione evocativa, risulterebbe, a rigore, inesatta essendo la matrice ad essere incisa mentre il foglio è stampato.
Invece se il valore è attribuito alla stampa (il risultato) e non al procedimento dalla quale è derivata (la tecnica), forse è anche comprensibile una maggiore “indifferenza” rispetto al processo, iniziando con la contaminazione tra diverse tecniche, fino alla “disinvoltura” nel sostituirle con procedimenti anche estranei rispetto all’originaria azione dell’incidere manualmente, poiché quel che appunto conta è l’immagine stampata in sé non tanto come si è ottenuta e l’evoluzione, se così si può dire, appare condivisa anche dal gusto dei fruitori.
Non mi sento di spingere oltre questa mia considerazione non sapendo se anche all’estero si è discusso sul concetto di “originalità” e non voglio neanche pensare alle complicazioni che si avrebbero se oltre a tentare una definizione di “incisione originale” ci si confrontasse anche sulla significato di “stampa originale” (original print) visto che, dopo lungo e acceso dibattito, si è pervenuti al risultato, marcatamente italiano, che ciascuno ha mantenuto la diversità delle proprie inconciliabili opinioni.
L’Italia appare dunque “l’isola felice” dell’incisione originale, forse è anche per questo legame che gli incisori italiani hanno difficoltà a confrontarsi all’estero?
Non so se questo sia un bene o un male e quali sviluppi potrà ancora riservare, continuo a guardare a tutto con curiosità e interesse nella stabile consapevolezza che a me affascina ed emoziona l’incisione nelle sue espressioni più tradizionali, non m’importa nulla di essere considerato un passatista e se anche nessuno la praticasse più ai livelli eccelsi che ancora si possono apprezzare, il passato, anche il più recente, è così ricco di artisti ed opere realizzate da soddisfare la curiosità per il tempo che mi resta.